IL DECALOGO DI AGO... IL SEMPLICE
E il pischello che dribblava la noia moraviana, con la classe e la solitudine dell’ala destra che portava stampata nell’anima, come il numero "7" degli esordi, di lì a poco sarebbe diventato semplicemente "Ago", il campione. L’amico e il fratello del popolo romanista. Il capitano, la bella bandiera pasoliniana, quando ancora anche nel calcio si poteva parlare di bandiere.
Ago l’idolo di "I Ragazzi della Curva Sud", il numero "10" giallorosso quando Totti era un pupone in fasce e di cucchiaio conosceva solo quello per ripulire il vasetto degli omogeneizzati. Ago l’uomo verticale, che pensava, come Montaigne, che «la vita è fatta di passaggi», a volte lunghi, talora troppo stretti, per la coscienza pulita di un uomo vero. Ago era un filosofo della sfera di cuoio, come Scopigno, e prima di battere quelle punizioni-bomba che «pare le tira dar terrazzo de casa sua» vaneggiavano estasiati i vecchi di Testaccio, rifletteva socraticamente, «so di non sapere», sul mistero dell’esistenza.
Ago che segnava un gol e che invece di esultare pazzo di gioia, mostrando superbo tatuaggi e smitragliando sotto la Sud come un Osvaldo di adesso, se ne tornava serafico a centrocampo, con il pallone sotto braccio, ripensando a un Caravaggio ammirato il giorno prima al museo, assieme al suo maestro di campo: il "Barone" Nils Liedholm. Tutto questo e molto altro, è stato Agostino Di Bartolomei, il simbolo di quella Roma, praticante la religione della zona mista, campione d’Italia dell’83, che arrivò a un passo dal tetto d’Europa… Stadio Olimpico, 30 maggio 1984, finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool: la sua Roma sconfitta alla lotteria dei rigori. «Notte di lacrime e preghiere», cantava affranto il tifoso Venditti, nell’assurda notte della finale persa in casa.
E da quella notte Ago non ebbe più pace. Nonostante le petizioni popolari e persino l’intervento ad arte di Renato Guttuso per far restare "Er Capitano", Di Bartolomei fu costretto a spogliarsi della sua seconda pelle, la maglia giallorossa, per indossare quella del primo Milan berlusconiano.
Un giorno però, il passato ebbro d’amore e il presente avido di rivalsa, gli fecero lo scherzo di incontrarsi e di mandarlo in gol. Segnò lui il 2-1 a mamma Roma, e quella fu l’unica volta che lo videro esultare. Ma era lo sfogo dell’amante tradito. È stato invece il mondo del calcio, da sempre torbido e omertoso, specchio reale di un Paese che raramente premia i gigli dell’onestà, a tradire Ago, l’uomo triste e solitario, che fragile e indifeso, andava incontro al suo tragico finale. A 39 anni, Di Bartolomei come segno di riconoscenza per tutte le emozioni che aveva regalato alla gente degli stadi, chiedeva solamente di poter realizzare un unico sogno: insegnare ai bambini le meraviglie di «questo splendido sport».
Raccontargli la favola del calcio che è fatta di storia aurea come quella dell’antica Roma, di tradizione, di «talento e serietà che, diceva, valgono allo stesso modo». Dire ai più piccoli, non ancora contaminati dal mondo marcio degli adulti, con il tono affettuoso del buon padre: «Ricordati che il calcio è semplicità». Era l’ultimo comandamento, ma quello fondamentale, del suo decalogo. Ago lo aveva scritto e inserito in un Manuale del calcio (ora edito da Fandango, con illustrazioni di Davide Reviati , in libreria dal 24 settembre) che come un cross improvviso è rimbalzato nell’area della memoria, l’unico luogo in cui si attenua un po’ il vuoto e il rimpianto lasciato dalla sua morte. Un manoscritto uscito da uno di quei cassetti richiusi, per sempre, come i suoi segreti di eterno ragazzo cresciuto troppo in fretta e altrettanto in fretta strappato alla vita.
Un’etica che Ago aveva fatta sua e che voleva divulgare attraverso lo sport più popolare che c’è. Un messaggio di speranza nel futuro, destinato a un calcio che mai come in questo momento dice di voler rimettere al centro i giovani. Pagine che Agostino avrebbe voluto sfogliare durante gli allenamenti con i suoi ragazzi di una scuola-calcio che non è mai nata. Perché tutti, anche quelli che si professavano suoi amici fraterni, una volta finito fuori dal giro gli avevano sbattuta la porta in faccia, etichettandolo ben prima di Zeman, come «non funzionale al sistema». «Anto’, io ti debbo dire una cosa ... Io penso che il calcio è gioco e te sei un uomo fondamentalmente triste», si sente dire Antonio Pisapia, il personaggio del film L’uomo in più di Paolo Sorrentino che si è ispirato alla parabola calcistica ed esistenziale di Di Bartolomei. Ago non era affatto un uomo triste, e quei pochi, a parte la sua famiglia, che avevano avuto il privilegio di conoscerlo da vicino, lo sapevano bene.
Ago era il «Garrone di Cuore», scrive Gianni Mura in prefazione al Manuale del calcio. Ago non era mai sceso a compromessi e di sicuro non si sarebbe mai prestato agli inciuci e agli scandali ricorrenti di Palazzo. Era un uomo saggio, dotato di una curiosità silente, per questo più profonda, che amava leggere, osservare, conoscere e confrontarsi con altre presenze rare del calcio (vedi le sue interviste in fondo al Manuale fatte a Sandro Ciotti, Giampiero Boniperti e Nils Liedholm), con i quali condividere e continuare a difendere il rispetto, prima di tutto per la dignità umana.
Ago il coerente, vista l’assurda velocità che stava prendendo perfino un pallone, aveva solo deciso di vivere e di giocare al suo ritmo naturale: a passo lento. A volte in campo anche troppo, fino a diventare con Prohaska, «lenti a contatto», per l’ala critica e finemente satirica della torcida romanista. Allo sfottò rispondeva con lo sguardo serio dei giusti, ma dentro di sé Di Bartolomei sapeva fin dall’inizio che quello era soltanto un gioco, e ci rideva su. Ed era lo stesso sorriso sornione di un ragazzino che comincia ora, al quale Ago, da un campo lontano, pieno di gigli come lui, gli manda a dire: «Tratta i tuoi piedi esattamente come un pianista di professione… Divertiti. Il calcio è allegria».
L'INEDITO
I comandamenti del pallone
l decalogo stilato da Agostino Di Bartolomei nel suo Manuale del calcio, ovvero 10 suggerimenti da tenere a mente per piccoli calciatori «sia che abbiano le doti, la volontà e la fortuna di andare avanti in questo splendido sport, sia che nella loro vita poi facciano altro».
1) Il calcio è un gioco di squadra. Nessuno può vincere una partita da solo
2) Impara le regole del calcio, soltanto conoscendole perfettamente potrai esprimere al meglio il tuo talento
3) Sii leale con l’avversario. Non entrare mai in campo con l’intenzione di far male a qualcuno… Divertiti. Il calcio è allegria
4) Abbi il massimo rispetto nei confronti dell’arbitro e dei guardalinee: ricorda che anche loro possono sbagliare in quanto non è facile amministrare una partita
5) Alimentati in modo equilibrato. Nutrirsi bene non significa mangiare troppo, ma mangiare con criterio scegliendo cibi ad alto valore nutritivo
6) Ricorda sempre che prima di essere un calciatore devi essere un atleta, la condizione fisica nel calcio è fondamentale
7) Il grande capitale di un calciatore è il suo corpo. Abbine cura, concediti il riposo necessario per recuperare le energie spese quotidianamente
8) Di ogni infortunio dovrai parlarne sia al massaggiatore che al medico della società oltre che al tuo allenatore. Non nascondere nulla per piccolo che ti possa sembrare l’inconveniente 9) Dopo l’allenamento e la partita fai una doccia ristoratrice e asciugati bene…Tratta i tuoi piedi esattamente come fa un pianista di professione con le sue mani
10) Ricordati che il calcio è semplicità